sabato 26 novembre 2011

ANTHRAX - "Worship Music": un parto difficile ma i risultati ci sono!

ANTHRAX “Worship Music” (Megaforce Records, 2011) – www.anthrax.com

Tracklist:
1. Worship (intro)
2. Earth On Hell (video http://www.youtube.com/watch?v=aO5nhO-jXqg)
3. The Devil You Know (video http://www.youtube.com/watch?v=TT76uz21TNg)
4. Fight 'em 'til You Can't (video http://www.youtube.com/watch?v=nzDmgn-G2FM&feature=relmfu)
5. I'm Alive (video http://www.youtube.com/watch?v=jpJobQns0yg)
6. Hymn 1
7. In The End
8. The Giant
9. Hymn 2
10. Judas Priest
11. Crawl (video http://www.youtube.com/watch?v=PORfHUdWS1Y)
12. The Constant
13. Revolution Screams / New Noise (Refused cover ghost track)

Erano 8 anni che aspettavamo questo disco e devo proprio dire che ne è valsa la pena! Qui non abbiamo un semplice disco degli Anthrax ma un vero e proprio capolavoro, almeno per gli amanti del genere. Lo metti in play e subito piace, cosa che di solito non accadeva almeno dal 1990-91 (era il periodo d’oro dei vari “Black Album”, “Rust In Piece”, “Seasons In The Abyss”, solo per citarne qualcuno, ricordate?). Gli Anthrax sono tornati con il loro vocalist originale, Joey Belladonna, con il quale non facevano album dal lontano 1990 (da “Persistence Of Time” per intenderci) ed è stato un ritorno piacevolissimo. Il disco prende dal primo all'ultimo brano. È una macchina da guerra pesante ma ben bilanciata e ben coordinata dagli straordinari riff di Scott Ian. La prima bordata arriva con “Earth On Hell”, classico pezzo thrash che ci fa subito capire cosa ci aspetterà: batteria indemoniata e riff al cardiopalma! “The Devil You Know” è stata definita dagli stessi membri della band come una canzone degli Anthrax ma con il groove degli AC/DC. Effettivamente è così, con un ritornello che conquista e non ti abbandona più. Il primo singolo scelto è “Fight 'Em 'Til You Can't”. Scelta abbastanza opinabile dopo aver ascoltato l’intero disco. La canzone è dignitosa ma non paragonabile alle altre tracks dell’album. La scelta potrebbe essere stata influenzata dalla passione di Ian per i fumetti in particolare di “Zombie”, ed è proprio la battaglia contro i morti viventi il tema di "Fight 'Em 'Til You Can't". Altre canzoni degne di nota, e che diventeranno sicuramente parti fondamentali delle scalette dei live sono, “I'm Alive” e “Crawl” che non sono proprio dei pezzi thrash ma rientrano pienamente nelle corde vocali di Belladonna. Ogni canzone ha un suo perché e non siamo davanti a delle fotocopie del thrash anni ’80! (http://www.comingsoon.it/Musica/Articoli/Speciali/Page/?Key=8822)
“Worship Music” è la decima fatica in studio dei thrashers newyorkesi più famosi al mondo, vale a dire proprio quegli Anthrax che, di recente, hanno ottenuto il giusto riconoscimento alla loro ormai quasi trentennale carriera, venendo schedulati per il tour mondiale del cosiddetto “Big 4”, vale a dire i 4 gruppi (Metallica, Megadeth, Slayer e, appunto, Anthrax) che hanno gettato le basi del thrash metal e che, di conseguenza, sono stati seminali per tutto il metal più estremo che da lì in seguito avrebbe fatto capolino sulla scena mondiale. Il parto di quest'album non è stato per nulla semplice, dato che, inizialmente, il compito di registrare le parti di voce era stato affidato all’esordiente Dan Nelson, per essere sostituito dallo storico singer Joey Belladonna quando le parti di Nelson erano ormai tutte pronte. La band, per contro non ha mai fornito molte spiegazioni riguardo all'accaduto, ma tant'è che l’uscita di scena di questo signor sconosciuto per far posto al ritorno di colui che ha reso famosa la band in tutto il mondo prestando la propria ugola per album seminali come “Spreading the Disease”, “Among the Living” e “State of Euphoria”, ha di sicuro fatto la felicità di tutti i fans della prima ora. Personalmente, ho sempre preferito la voce di John Bush, dal registro meno esteso ma molto più espressiva, per quanto bisogna ammettere che gli album più belli siano stati realizzati con Belladonna. Tuttavia, sono fermamente convinto che, col timbro vocale più graffiante di Bush, quest'ultimo capitolo della saga Anthrax avrebbe guadagnato qualche punticino in più. Questo perché l'album, che non è niente male, è certamente un album che guarda parecchio indietro nel tempo, agli esordi della band, ma con un particolare tocco di attualità che ci impedisce di parlare del tutto di “operazione nostalgia”. Intendiamoci: dietro “Worship Music” non c’è nulla di miracoloso, ma sicuramente è un passo in avanti in termini di qualità, rispetto a quanto i ragazzi hanno composto negli ultimi anni; è dai tempi di “Sound of White Noise” (1993) che gli Anthrax non sfornavano nulla di veramente eccellente e non credo che Scott Ian e soci riusciranno mai a bissare quel grande successo, né tantomeno i pilastri storici degli anni '80. Bisogna farsene una ragione: la gente continuerà ad osannare gli Anthrax per brani storici come “Indians”, “Caught in a Mosh”, “Metal Thrashing Mad” ecc… tutto il resto serve solo a fare volume in un curriculum che fa di loro a pieno diritto, uno dei “Big 4”. (http://www.longliverocknroll.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1250:anthrax-worship-music&catid=1:recensione-album&Itemid=2)
“RADI@zioni” è un programma curato da Camillo Fasulo, Marco Greco, Antonio Marra e Angelo De Luca, con la radi@ttiva collaborazione di Rino De Cesare, Angelo Olive, Mimmo Saponaro e Carmine Tateo, in onda tutti i lunedì e venerdì tra le ore 22 e le 24 sull’emittente radiofonica Ciccio Riccio di Brindisi – www.ciccioriccio.it.


domenica 13 novembre 2011

FLEET FOXES: nuovi "vecchi" segreti & tesori nascosti


FLEET FOXES “Helplessness Blues” (Sub Pop/Bella Union, 2011) – www.fleetfoxes.com


Tracklist:
1. Montezuma (http://www.youtube.com/watch?v=cdN2bfov9JQ)
2. Bedouin Dress
3. Sim Sala Bim
4. Battery Kinzie
5. The Plains/Bitter Dancer
6. Helplessness Blues
7. The Cascades
8. Lorelai (http://www.youtube.com/watch?v=xtFrGCJrnKc&feature=related)
9. Someone You'd Admire
10. The Shrine/An Argument (http://www.youtube.com/watch?v=jrTEKlrUdFI&feature=related)
11. Blue Spotted Tail
12. Grown Ocean (http://www.youtube.com/watch?v=Ewkhr8dM86M&feature=related)


È facile intuire che questo “Helplessness Blues” dev’essere stato proprio una bella gatta da pelare per i Fleet Foxes. Provate solo a pensare cosa significhi dare un seguito a un debutto come il loro omonimo del 2008, un disco semplicemente troppo bello per essere vero, pienamente meritevole di tutte le lodi e le iperboli di cui è stato – ed è ancora – oggetto. Provate solo per un attimo a mettervi nei panni del giovane Robin Pecknold: un giorno in cameretta ad imparare, sulla chitarra, le canzoni di Dylan, Neil Young e Joni Mitchell con i tuoi migliori amici (fra i quali il chitarrista Skyler Skjelset) e prima ancora di rendertene conto ti ritrovi scaraventato su di un palco, folle estasiate di mezzo mondo che applaudono sotto di te, incantate dalle tue canzoni… Ora, come si fa a dare un seguito al più bello dei tuoi sogni? Non è impossibile, ma devi avere la capacità di riuscire a sognare tutto da capo. Devi trovare un modo per canalizzare positivamente le inevitabili tensioni del caso e scavare a fondo dentro te stesso in cerca di ispirazione e nuovi stimoli. Ma, soprattutto, devi cercare di farlo nella maniera più onesta possibile, sforzandoti di essere autentico e sincero con te stesso, con chi ti circonda, con chi si aspetta qualcosa da te. Ecco, “Helplessness Blues” è tutto questo. È un disco che tra i suoi solchi racchiude la sua stessa travagliata storia: per questo è vivo, dinamico, in continuo divenire. Ad un primo ascolto, sembra non possedere quella magia istantanea dalla quale ci siamo trovati inondati quando abbiamo sentito per la prima volta il debutto; ma è solo perché ad essa le nostre orecchie si sono abituate. Prima che immediato, questo è piuttosto un disco che cresce, ascolto dopo ascolto, e ti invita, ogni volta, a scoprirne segreti e tesori nascosti. (www.lifegate.it)
Sebbene certe dichiarazioni “pre-partita” del leader Robin Pecknold, che vagheggiava di similitudini con Roy Harper e Van Morrison, non vadano prese propriamente alla lettera, in "Helplessness Blues" si avverte un sostanziale bilanciamento del sound in favore di “quel” folk britannico progressivo, comunitario e itinerante, in voga in Inghilterra tra la fine degli anni 60 e l’inizio dei 70, rispetto alle tonalità più genericamente flower-power e west-coast. Un parziale avanzamento del loro baricentro stilistico che ha come emblema il brano più atipico e articolato del nuovo lavoro: "The Shrine/An Argument". Piccola suite art-folk di otto minuti in tre movimenti: una prima parte più tradizionale, tutta centrata sul picking e sul cantato del solo Pecknold, una seconda solenne e in levare, un po’ alla Arcade Fire e, infine, dopo un intermezzo chiesastico per sola voce e organo, una conclusione free e rumorista screziata da viola e fiati dissonanti. Un tentativo, decisamente riuscito, di valicare l’abituale seminato folk-pop, abile nel dosare esperimenti e variazioni senza penalizzare la melodia. Il segnale positivo di un gruppo che non ha intenzione di sedersi sugli allori del recente passato. (www.storiadellamusica.it)
Ascoltare i Fleet Foxes equivale a catapultarsi nel bel mezzo di una foresta, isolarsi dal consumismo, dalle televisioni, dalla pubblicità e da tutto quanto finisce per farti odiare ciò che c’è di bello nella modernità (sempre che ce ne sia). Modernità, tuttavia, è una parola che pare non esista nel vocabolario di Pecknold e compagni. La loro genuinità rimanda a decenni lontani, passati e irripetibili: si torna a riassaporare la bellezza del lavorare la terra, dell’allevare le bestie, di ballare per le strade, di vestirsi di quattro stracci fatti in casa. Niente virtuosismi, niente di altamente tecnologico. Solo i vecchi strumenti: chitarra acustica, batteria, tastiera, percussioni e voci e cori che rivestono il tutto. I detrattori saranno pronti ad accusare le ‘volpi’ di scarso coraggio per la sperimentazione e di scarsa propensione all’innovazione. A noi viene solo da dire che il combo di Seattle è qualcosa di sprecato per questi tempi e che dovremmo ritenerci fortunati l’aver potuto vivere per 50 minuti in una dimensione extratemporale. (www.indieforbunnies.it)
Rino De Cesare
“RADI@zioni” è un programma curato da Camillo Fasulo, Marco Greco, Antonio Marra e Angelo De Luca, con la radi@ttiva collaborazione di Rino De Cesare, Angelo Olive, Mimmo Saponaro e Carmine Tateo, in onda tutti i lunedì e venerdì tra le ore 22 e le 24 sull’emittente radiofonica Ciccio Riccio di Brindisi – www.ciccioriccio.it.



CAKE: un altro disco orgogliosamente fuori moda!


CAKE “Showroom Of Compassion” (2011)

… Negli oltre sei anni trascorsi dalla precedente fatica (“Pressure Chief”) sono cambiate un po’ di cose (abbandono della vecchia casa discografica e creazione di una tutta loro, la Update Records inaugurata un paio di anni fa con una loro raccolta di b-sides) ma non è cambiato il loro modo di fare musica: intrecci di basso e chitarre pieni di groove, fiati tex-mex e l’incorreggibile voce dell’indiscusso leader, John McRae, sempre ironica al punto giusto.
Sembrano tornati davvero in gran forma, infatti questo è un disco Cake al 100%, anche se i tempi d’oro dei primi due album, inutile nasconderlo, restano lontani! Il singolo “Sick of you” balzato in testa nella classifica rock alternativo di Billboard è per loro una boccata di ossigeno, un giusto riconoscimento alla loro ventennale carriera.
“Showroom Of Compassion” è la somma di tutti questi anni di ricerca sonora per cui se i Cake vi sono piaciuti fino ad ora questo è un altro cd da avere e consumare.

(Carmine Tateo - e-mail: carmine.taty@live.it)

Tracce consigliate:

(a cura di Camillo “RADI@zioni” Fasulo)

KASABIAN: "Velociraptor!" è il loro album più epico e ambizioso!

KASABIAN “Velociraptor!” (2011)

… Ripartire dopo un album come “West Ryder Pauper Lunatic Asylum”, che ha portato al successo la band non dev’essere stato facile. La formula che comunque si è rivelata vincente col precedente cd (melange di pop, dance, psychedelia e “kasabianismi” vari) non è stata del tutto rispettata in “Velociraptor!”. Attenti però a parlare di gioco al ribasso perché i Kasabian guadagnano in ecletticità quello che hanno perso in originalità.
L’album contiene alcuni dei chorus più immediati fin qui scritti dal gruppo, ma loro si divertono (e si sente!) quando recuperano quella lunaticità psychedelica, dimostrando che i quattro si trovano a loro agio. Una delle band più in forma del momento!

(Carmine Tateo - e-mail: carmine.taty@live.it)

Tracce consigliate:

(a cura di Camillo “RADI@zioni” Fasulo)


giovedì 3 novembre 2011

OPETH: superato il punto del "non ritorno"?

OPETH “Heritage” (Roadrunner Records, 2011) – www.opeth.com

Tracklist:
01. Heritage
02. The Devil's Orchard (Video: http://youtu.be/G1pi7Dn87mY)

03. I Feel The Dark
04. Slither (Video: http://youtu.be/3JDaQP72PfI)

05. Nepenthe
06. Häxprocess
07. Famine
08. The Lines In My Hand (Video: http://youtu.be/tMj4CkCIHfM)

09. Folklore (Video: http://youtu.be/OleNkTc8D1E)

10. Marrow Of The Earth
11. Pyre (Bonus Track – Video: http://youtu.be/ndWUtmGOFRo)

12. Face In The Snow (Bonus Track)


Credere che un artista, nel corso della propria carriera, si interessi più ad accontentare i fans che a soddisfare se stesso, è come credere alle favole. Certo, qualcuno lo fa. Qualcuno preferisce proporre sempre la solita minestrina riscaldata pur di non rischiare di cadere rovinosamente, o per rimanere fedele alle esigenze di mercato (ma questa è un'altra storia). Gli Opeth, fin dalla loro nascita, hanno sempre dimostrato di essere unici, per certi versi ma, con l'avanzare della carriera, anche di essere uguali a pochi altri. Quei pochi altri che non si limitano a svolgere sempre lo stesso compitino, ma che preferiscono agire di testa propria, seguendo sì una certa evoluzione, ma pronti anche a mettersi nuovamente in gioco con cambiamenti radicali.
Cosa succede quindi con “Heritage”? Succede che la band torna a mettersi in gioco, in un certo senso, ma senza farlo con un cambiamento poi così radicale. "Ma come? Questi non sono gli Opeth che conoscevamo!", potrebbe già esclamare qualcuno. E invece no, questi sono proprio gli Opeth. Il ragionamento è anche abbastanza semplice: gli Opeth di “Heritage” non hanno fatto altro che "mettersi a nudo". E cosa vuol dire questo? Che se fino a un certo punto nella stessa creatura convivevano due anime ben distinte (ovvero death metal e progressive), adesso una delle due è stata messa in stand by. Åkerfeldt e soci non hanno fatto altro che abbandonare momentaneamente le influenze death e, soprattutto, metal, per lasciare spazio solo ed esclusivamente all'anima progressive. E, attenzione, non prog-metal, ma bensì prog settantiano, il rock che quarant'anni fa veniva definito come sperimentale, e che oggi sembra essere un vecchietto che (per fortuna) non ha nessuna voglia di andarsene in pensione.
Già il singolo "The Devil's Orchard" aveva fatto ben capire quale sarebbe stata la direzione intrapresa dalla band, lasciando più di un affezionato in leggero stato confusionale e altri, invece, nello sconforto più totale (i sostenitori del movimento "no growl, no party", per intenderci). Il pezzo, posto in apertura del disco, si impone anche con una certa furia, senza che ci sia necessariamente il bisogno di aggiungere doppia cassa e distorsioni prettamente più metal-oriented. A supporto c'è una produzione, affidata alle sapienti mani di Mr. Steven “Porcupine Tree” Wilson, che tenta (e un po' ci riesce) di essere il più scarna e "vintage" possibile. Sulla stessa linea anche una “Slither” (tributo personale di Åkerfeldt a Ronnie James Dio) che vira nettamente verso l'hard rock alla Deep Purple, o anche la sfuriata finale di “The Lines In My Hand”; tutti pezzi dove il "picchiatore" Axenrot (spesso additato dai fans come poco adatto alle sonorità di casa Opeth) sembra trovarsi più a suo agio. Ma non è esattamente così, perché le sorprese arrivano soprattutto dallo stesso drummer svedese, capace anche di deliziarci con un tocco delicato ed elegante che ben si sposa con le parti più lente e riflessive (il suo lavoro sulle ritmiche jazzate della splendida “Nepenthe” è solo uno dei tanti esempi a disposizione). La sezione ritmica risponde quindi più che bene ai "nuovi stimoli", grazie anche al basso di un Mendez in grande spolvero. Il tutto è corredato dall'ottimo lavoro dell'ormai ex-tastierista Per Wiberg (essenziale per quanto riguarda il lato atmosferico della musica) e dalle chitarre di Åkesson e dello stesso Åkerfeldt, quest'ultimo autore anche di una prova dietro al microfono a dir poco perfetta.
Molti dei brani a disposizione non garantiscono un impatto immediato, promettendo però delle vere e proprie soddisfazioni dopo una buona dose di ascolti, altri invece, pur non essendo diretti e coinvolgenti, riescono a farsi apprezzare anche dopo un paio di giri nel lettore. Nel secondo caso è doveroso fare riferimento alla bellissima “Folklore” (il finale è semplicemente da brividi) e Pyre, quest'ultima addirittura disponibile come bonus track per i possessori della limited edition. Un disco che è, in definitiva, come il buon vino: va assaporato con calma e, magari, ha bisogno anche di "invecchiare" un po'. “Heritage”, per essere compreso in pieno, necessita di continui e attenti ascolti, atti soprattutto a far emergere, poco per volta, ogni sua sfumatura. Un disco che, nel modo più assoluto, non è adatto a chi vuole tutto e subito, ma che ha bisogno di tanta, tantissima pazienza per essere compreso. (http://www.truemetal.it/reviews.php?op=albumreview&id=10140)
“RADI@zioni” è un programma curato da Camillo Fasulo, Marco Greco, Antonio Marra e Angelo De Luca, con la radi@ttiva collaborazione di Rino De Cesare, Angelo Olive, Mimmo Saponaro e Carmine Tateo, in onda tutti i lunedì e venerdì tra le ore 22 e le 24 sull’emittente radiofonica Ciccio Riccio di Brindisi – www.ciccioriccio.it.


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