venerdì 24 gennaio 2014

ALELA DIANE: Addio agli amanti, agli amati e, forse, addio all’amore!

Alela DianeAbout Farewell” (Rusted Blue, 2013) – www.aleladiane.com

Tracklist:
01. Colorado Blue
02. About Farewell
03. The Way We Fall
04. Nothing I Can Do
05. Lost Land
06. I thought I knew
07.
Before the leaving
08.
Hazel Street
09.
Black Sheep
10. Rose & Thorn

Non può esserci scelta umana più devastante, e amara. Dopo il fallimento del suo matrimonio, Alela Diane convoca i fantasmi di tutti i suoi compagni passati per un disco che può ben dirsi “spiritico” – ma proprio perché apparentemente derivante da uno stato mentale soprannaturale, da quell’ispirazione che, illusione o no che sia, sembra provenire dalla parte divina di noi stessi. Non si sa con esattezza quanti dei classici di un tempo lo siano stati da subito, e quanti lo siano diventati solo più tardi – o, peggio, postumi. Ma “About Farewell” è un album che, certo, non si dimentica facilmente. Contiene canzoni solcate da un sound di grande gravità e profondità spirituale.
Sicuramente pioveranno i raffronti con la Joni Mitchell del capolavoro “Blue” (e quel colore fa parte anche della simbologia di “About Farewell”) come anche le particolari condizioni che portarono alla nascita di quel disco, anche se lo stile di questo si avvicina più all’austera compostezza di una Marissa Nadler, a voler essere più precisi. Ma i paragoni importanti la Diane se li merita tutti, per un disco che potrebbe sembrare un classico “ritorno alle origini”. Ma, niente di più sbagliato! Dell’acerba Alela di “The Pirate’s Gospel”, dell’espressività ancora da conquistare di “To Be Still”, poco rimane in “About Farewell”. Si esalta invece la sicurezza e la forza interiore di una grande artista.
C’è un’intera serie di cantanti, tutte donne, tra l’Oregon e la California che da qualche anno sta davvero producendo quanto di meglio ci sia in giro. Da Zola Jesus a Scout Nibblet (inglese che però sceglie Portland, in Oregon, come residenza), fino a Grouper, a Lady Lazarus. Un’intera… come definirla? Generazione? … Una scena? ... Insomma, un certo numero di musiciste che dalla stessa area stanno riscrivendo un vocabolario musicale che sembrava già completo. Che siano tutte donne è un elemento che credo vada tenuto in conto, ma non intendo fare discorsi di genere, perché poi, davvero, è difficile uscirne vivi senza usare la parola “femminismo” per definire una causa che forse esiste, forse non esiste o forse è solo mal posta. Tra loro c’è anche Alela Diane, con un album folk dalle influenze un po’ meno tradizionali del solito, uno di quegli album che sembrano registrati davanti a un fuoco in Tennessee o in mezzo agli spiriti, ma che viene necessariamente da quell’area musicale di cui si parlava.
Uscito la scorsa estate per la Rusted Blue Records, “About Farewell” è un disco che non cambia molto le cose, perché davvero non prova a sperimentare in nessuna direzione, né a creare un nuovo alfabeto per parlare di abbandoni e del fatto che nessuno ti possa salvare. Ma è davvero necessario dire queste cose in un modo nuovo? “About Farewell” è un album abbastanza tradizionale, eppure – o forse proprio per quello, perché forse certe cose hanno bisogno di una loro ortografia specifica, che è bene seguire, perché la forma è anche contenuto – … eppure ha tutto quello di cui abbiamo bisogno. Ci racconta qualcosa con un’esattezza disarmante. Quando un album e una certa grammatica musicale sono confortanti lo stesso, nonostante la consuetudine o per la loro consuetudine, cosa cercare in più? Rispetto alle prove precedenti della Diane, quest’ultimo album è ancora più spoglio: tutto è consegnato alla voce e alla chitarra e poco più, come se tutto il resto, le decorazioni, i colori, le foto fossero già state messe negli scatoloni, come se lei fosse pronta per andarsene. Questo è un disco di qualcuno che se ne va, prima di essere abbandonata. È un disco che non mostra debolezza, ma piuttosto la forza di chi, forse, sta perdendo tutto, ma che almeno c’ha provato, che si è messa in gioco o qualcosa del genere, che ha iniziato a tagliare i ponti che la univano con qualcuno o con tutti, perché è il solo modo per salvarsi. Forse non rientrerà nella top dei migliori album del 2013, ma che si è contenti sia stato scritto. Non racconta niente di nuovo, solo l’essenziale.

“RADI@zioni/N.R.G.” è un programma ideato da Camillo Fasulo e realizzato con la radi@ttiva collaborazione di Gabriella Trastevere, Mimmo Saponaro e Carmine Tateo, in onda tutti i lunedì tra le ore 22 e le 24 sull’emittente radiofonica “Ciccio Riccio” (www.ciccioriccio.it) di Brindisi.


GRINGO STAR: ironici & bizzarri... vivaci & immediati!

RADI@zioni / Disco Hot N° 2:
GRINGO STAR “Floating Out To See” (2013)

Arrivano da Atlanta (Georgia, Stati Uniti d’America). Sono i Gringo Star, band dall’aria giocosa e un po’ ironica, lo deduciamo anche dal bizzarro e volutamente provocatorio nome che si sono scelti e che flirta con un certo retaggio “british”. Chissà cosa c’entra il batterista dei Beatles: il buon Ringo Starr?
Il gruppo è capitanato dai fratelli Furgiuele, Pete e Nicholas, coppia di chitarristi-cantanti alla guida di un quartetto tutto frenesia e citazionismo. Dal vivo amano scambiarsi gli strumenti, caratteristica alquanto curiosa questa dei Gringo Star. Il debutto è avvenuto nel 2007 con un E.P.
Ora invece, con questo nuovo album lungo sono riusciti a varcare i patri confini.
Vivacità e immediatezza invidiabili dalla loro parte, i Gringo Star sono capaci di mischiare le carte in tavola: punk rock, surf, country e un groviglio di riff che rimandano dritti a primi Kinks. Saranno una meteora o sentiremo ancora parlare di loro?
(Carmine Tateo)

Traccia consigliata: Find a love


venerdì 17 gennaio 2014

ARCADE FIRE: “Reflektor” è un album maledettamente ambizioso e presuntuoso!


RADI@zioni / Disco Hot N° 1:
ARCADE FIRE “Reflektor” (2013)
Preceduto da tanta pubblicità, anticipato da varie canzoni messe in circolazione sulla rete e disseminato indizi e graffiti un po’ dappertutto, è stato finalmente pubblicato “Reflektor”, 4° album per questi canadesi di Montreal.
“Reflektor” è un album maledettamente ambizioso e presuntuoso! Prodotto da James Murphy (leader dei LCD Soundsystem) è anche spudoratamente citazionista nei suoni e stracolmo di dettagli.
 “Reflektor” necessita di un ascolto più attento del solito anche perché alcuni brani contenuti in esso superano i 5 minuti.
Il disco è stato registrato in Giamaica con il fine di scioccare l’ascoltatore, ponendolo di fronte ad una decisione: piace o non piace!
La band mette in mostra un’insolita sinuosità che fino ad oggi aveva solo lasciato intravedere.
Secondo noi radi@ttivi mantiene molte delle promesse iniziali e alla fine risulta molto “popular”.
(Carmine Tateo)

Tracce consigliate:

JULIAN COPE, strampalato ed eccentrico come sempre!


JULIAN COPE “Revolutionary Suicide” (Head Heritage, 2013) – www.headheritage.co.uk

Tracklist Disc One:
01. Hymn To The Odin
02. Why Did The Chicken Cross My Mind?
03. The Armenian Genocide 

Tracklist Disc Two:
01. Revolutionary Suicide
 
02. Paradise Mislaid
03. Mexican Revolution Blues
04. Russian Revolution Blues
05. They Were On Hard Drugs
06. In His Cups
07. Phoney People, Phoney Lives
08. Destroy Religion


Uno strabiliante inno vaneggiante alla rivoluzione come repulisti per un mondo in collisione con se stesso. Un disco doppio che Julian Cope – lo stravagante artista del Galles – porta a termine come un sogno proveniente da un’ossessione interna, un’urgenza ispirativa, già manifestata con il precedente “Psychedelic Revolution” – anch’esso album doppio come questo che presentiamo – e che ancora riscuote emozioni di massa e benevoli apprezzamenti. “Revolutionary Suicide” è il nuovo capitolo di Cope, un doppio concentrato di poesia, ballate fricchettone sempre attuali e gioiellini sonori. Una prestazione sempre e comunque da tenere in mente perché artisti di questa stazza – sebbene sghembo e squadrato come si conviene ai veri “poeti folli” – non se ne “fabbricano” più e, come si dice, ogni lasciata è persa.
Si dica pure che Julian Cope è un po’ “fuori”. “Fuori come un balcone”, direbbe qualcuno… Potrebbe esserlo! Resterebbe, tuttavia, da capire fuori da cosa, o da dove? Stante il fatto che noi tutti che abbiamo a che fare con questo tipo di musica, tanto “dentro” non amiamo considerarci, abbiamo ora il compito di illustrarvi l’ultima produzione dell’arcidruido che meglio rappresenta le nostre ossessioni di un sano paganesimo. Nel disco Uno, in circa 30 minuti si ascoltano tre ballate, la folkeggiante “Hymn to the Odin”, la timida passata di pianoforte sopra un vocione lugubre alla Nick Cave di “Why did the chicken cross my mind” e i 16 minuti di “The Armenian Genocide”, stupenda giga di tamburo battente, chitarra acustica e cori attorno ad un falò: una sensazione crepuscolare e ricca di pathos. Il disco Due si discosta abbastanza dalla prima parte con sonorità stile anni ’60, come nella title-track, la patchanca ubriaca di “Mexican devolution blues”, bolle sintetiche come in “They were on hard drugs”, le chiazze psichedeliche della sua Inghilterra con “Phoney people, phoney lives” e tutto lo sperimentalismo di bonghi, suoni gutturali, vento e digrignamenti vari che “Destroy religion” mette in mostra, come in un commiato tribale, con l’intento di lasciare l’ascoltatore in balìa di un futuro incerto, nel vago delle visioni sciamaniche che la vita odierna ci nasconde. L’eccentrico Cope non si fa mancare nulla, tira fuori ancora una volta un gioiellino doppio che ha un suo preciso percorso emozionale ed è specchio di una poetica a suo modo maledetta, ma benedetta per i nostri padiglioni auricolari.
“Revolutionary Suicide” segue, a distanza di un anno, “Psychedelic Revolution” (doppio cd come il presente). In copertina si vede una sagoma umana, in cima a un dolmen crollato (forse lo stesso Julian Cope) che solleva, sembrerebbe, un Kalashnikov verso il cielo, tanto per confermare la matrice di un immaginario che l’autore mantiene in ambito rivoluzionario/barricadero. Il mondo del signor Giuliano sfugge in verità a qualsivoglia connotazione politica e infatti nelle note riportate sul booklet, si legge che l’album è stato ultimato il giorno dei funerali di Margaret Thatcher, buon’anima alla quale (per non dire altro) non augura alcun tipo di “R.I.P.”. A voi scoprire il perché, se la cosa interessa! A noi che ne scriviamo e ne parliamo, importa semplicemente che Julian Cope sia sempre l’amato artefice di imprese sonore cariche di quella particolare, squisita sofisticatezza stilistica, tipicamente “british”, oggi riscontrabile purtroppo in pochissimi altri autori. Cosa distanzia le sue attuali performance dalle prime esperienze solistiche? Poco o nulla, tanto che l’alto livello della sua produzione, pure se negli anni discontinua, ce lo riconsegna oggi, come ieri, ad una classicità incontestabile, vero stilema di un intero genere. Considerazione questa che probabilmente a lui stesso starebbe alquanto sulle palle, ma tant’è! Julian Cope resta un personaggio un po’ fuori e “Revolutionary Suicide” resta un album con il quale, ancora una volta, si perpetua la sua leggenda.
“RADI@zioni/N.R.G.” è un programma ideato da Camillo Fasulo e realizzato con la radi@ttiva collaborazione di Gabriella Trastevere, Mimmo Saponaro e Carmine Tateo, in onda tutti i lunedì tra le ore 22 e le 24 sull’emittente radiofonica “Ciccio Riccio” (www.ciccioriccio.it) di Brindisi.


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