domenica 27 febbraio 2011

THE LIKE: un mix di retro-pop e sexy-soul dal sapore “indie”

THE LIKE “Release Me” (2010)
A cinque anni dall’esordio la band di Los Angeles ci riprova e stavolta fa sul serio. Le 4 donne (componenti della band) di età tutte vicine ai 25 anni, in copertina appaiono in abiti molto leggeri contribuendo a dar subito l’idea di trovarci davanti a un disco sì leggero, ma anche fresco e frizzante…
Vissute all’ombra delle ormai ben più famose The Pipettes, le The Like possiedono un fascino ugualmente apprezzabile, frutto anche di un’estetica molto curata (il che non guasta mai!). Musicalmente parlando, che è in definitiva la cosa che più ci interessa in questo frangente, piazzano una manciata di ritornelli che è davvero difficile togliersi dalla mente, anche dopo averli ascoltati una sola volta. Il disco, breve e conciso, è un mix di retro-pop e sexy-soul dal sapore “indie”. Ritornelli accattivanti e ritmi giovanili sono gli altri ingredienti. Occhio alle ragazze! (Carmine Tateo)

venerdì 25 febbraio 2011

WIRE: uno dei pochi gruppi davvero rilevanti tra quelli nati durante l'esplosione del punk nel 1977


WIRE “Red Barked Tree” (Pink Flag, 2011) - www.pinkflag.com

Tracklist: 
01. Please Take
02. Now Was
03. Adapt
04. Two Minutes
05. Clay
06. Bad Worn Thing
07. Moreover
08. A Flat Tent
09. Smash
10. Down To This
11. Red Barked Trees

A due anni e mezzo di distanza da “Object 47”, precedente album in studio, i Wire tornano con un nuovo lavoro, “Red Barked Tree”, il 12° della loro carriera. Il disco si presenta con meno elettronica e più chitarra elettrica rispetto agli ultimi dischi della storica formazione post-punk inglese, con derive acide, new-wave, art-punk e alcuni episodi più pop. Secondo quanto dichiarato dalla stessa band, con questa raccolta i Wire hanno voluto avvicinarsi maggiormente alle loro esibizioni dal vivo con le quali sono stati fortemente impegnati negli ultimi anni. (http://spettacoli.tiscali.it/musica/recensioni/Wire/RED-BARKED-TREE/6935/)
Non è facile giudicare in maniera imparziale un nuovo lavoro dei Wire, band monumento in grado di generare ancora devozione e rispetto, a 34 anni di distanza dal loro esordio. Studenti di Belle Arti, sempre attenti agli aspetti sia grafici che metodologici della propria creatura, i quattro ragazzi inglesi si resero protagonisti, nell’arco del biennio 1977/1979, realizzando "Pink Flag", "Chair Missing" e “154”, tre albums che in pochi mesi scolpirono la storia del punk e del post-punk, e che peseranno come immensi macigni sulle loro teste per tutto il resto della carriera: metri di paragone impossibili da eguagliare. Non è facile raccontare la storia dei Wire, ma certamente si può affermare che ancor oggi siano uno dei pochi gruppi davvero rilevanti tra quelli nati durante l'esplosione del punk del 1977. Nel corso della loro travagliata esistenza, tra scioglimenti e rifondazioni, non sono mai stati colpiti dal morbo dell'autocelebrazione ma sono sempre rimasti fedeli all'idea di evoluzione e sperimentazione che li ha resi in qualche modo immuni al passare del tempo. L'attuale fase creativa dei Wire (che ha già visto la produzione degli ottimi “Send”, “Object 47” e della serie di Ep “Read And Burn”), vede l'assenza del chitarrista Bruce Gilbert, che si è chiamato fuori da qualche anno. Oggi la line-up è composta dai tre membri originari: Colin Newman, voce e chitarra, Graham Lewis, voce e basso e Robert Gotobed dietro la batteria. (http://www.ondarock.it/recensioni/2011_wire.htm)
Eleganti e ricercati, come nell'iniziale "Please Take", ritmicamente multiformi, come nella successiva "Now Was", o malinconicamente power-rock come in "Adapt", che potrebbe assurgere al ruolo di nuovo inno ufficiale della band, i Wire si riconfermano, con “Red Barked Tree”, gruppo di statura superiore. Le traiettorie musicali qui esposte sono eterogenee: si passa dai granitici riff di "Two Minutes", una rasoiata rimasta ferma nei cassetti da quasi dieci anni, alle veloci rotondità di "A Flat Tent", che dal vivo, statene certi, sarà una vera bomba e ancora "Smash", verso la fine, riesce nella complicata missione di permettere all'insieme il definitivo salto di qualità, conferendo a "Red Barked Tree" la giusta dose di orecchiabilità, senza mai scadere nella faciloneria da quattro soldi. (http://www.ondarock.it/recensioni/2011_wire.htm)
Concludendo, se è questo l’album con cui si vuole provare a conoscere la musica dei Wire, lasciate perdere e puntate altrove la vostra attenzione. Se, invece, com’è giusto che sia, conoscete già la band, “Red Barked Tree” vi piacerà e non potrete non apprezzarne l’approccio e la verve con cui i Wire l’hanno concepito. (http://www.ilcibicida.com/readarticle.php?article_id=1925)


“RADI@zioni” è un programma curato da Camillo Fasulo, Marco Greco, Antonio Marra e Angelo De Luca, con la radi@ttiva collaborazione di Rino De Cesare, Fernando Falcolini, Angelo Olive e Carmine Tateo, in onda tutti i lunedì e venerdì tra le ore 22 e le 24 sull’emittente radiofonica Ciccio Riccio di Brindisi – www.ciccioriccio.it.


venerdì 18 febbraio 2011

CHAPEL CLUB: Fulgido esempio di sapienza melodica l'album "Palace"


CHAPEL CLUB “Palace” (Loog/Universal, 2011) - www.chapelclub.com

Tracklist: 
01. Depths
02. Surfacing
03. Five Trees
04. After The Flood
05. White Knight Position
06. The Shore
07. Blind
08. Fine Light
09. O Maybe I
10. All The Eastern Girls
11.
Paper Thin

Con il termine “hype” si identifica quel singolare fenomeno per cui band di perfetti indie-sconosciuti, spesso contraddistinti da strettissimi pantaloni a sigaretta, giacca di pelle nera e frangettone scompigliato d’ordinanza, arrivano a riscuotere il favore della critica musicale ancora prima di aver pubblicato l’album d’esordio. Nella maggior parte dei casi la “next big thing” del momento si sgonfia altrettanto velocemente quanto si era gonfiata, per lasciare ai posteri un paio di singoli radio-friendly e poco piú. A volte peró la gemma grezza si rivela diamante, come nel caso degli Horrors, famosi inizialmente solo per il lugubre look, ma rivelatisi successivamente come una delle poche certezze del rock contemporaneo.
I Chapel Club giungono alla pubblicazione di “Palace”, il loro primo album, dopo un anno in cui abbiamo visto il loro nome rimbalzare spesso tra i titoli delle piú celebri riviste musicali d’oltremanica, nonché tra le schermate di webzine e blog piú o meno autorevoli. “Palace” si muove sulla scia dell’ondata di revival post-punk/dark-wave, che ha portato alla nascita negli ultimi anni di tanti piccoli cloni di Joy Division, Bauhaus e via dicendo. Cosa rende allora questo esordio tanto speciale, degno di essere giudicato probabilmente la prima grande uscita del 2011? Molto semplice, la qualità delle canzoni. (www.rockisland.it)
Fulgido esempio di sapienza melodica, per non dire pop, “Palace” è un disco in cui praticamente tutti i brani sono potenziali singoli. Inevitabile la scelta di “Surfacing”, che apre propriamente dopo l'intro ambientale di “Depths”: incalzante sezione ritmica, ritornello che cita curiosamente “Dream a little dream of me” di Mama Cass tra synth maestoso e chitarra shoegaze. Genere, questo, che non rimane mai sottotraccia ma rappresenta una costante, fino ad emergere prepotentemente in “The Shore”, a metà strada tra la potenza dei Ride e gli Echo and the Bunnymen. Non mancano poi pezzi più pop, come “O Maybe I” (con un riff di basso che sembra rallentare Peter Hook) e “All The Eastern Girls”, facilmente memorizzabili ma mai stucchevoli anche dopo infiniti ascolti. Insomma sono tanti gli spunti memorabili: “Blind”, ad esempio, tra le tracce che non circolavano prima dell'uscita del disco, sembra un papabile prossimo singolo, dotata di un riff che siamo sicuri mieterà molte vittime. (http://www.panopticonmag.com)
Chi riuscirà ad accaparrarsi la limited edition di "Palace", troverà allegato un secondo cd contenente i quattro brani usciti in dicembre come "Wintering EP": fra di essi "Widows", che regna dall'alto dei suoi otto minuti. Una cantilena in cui strofa e ritornello arrivano a diluirsi e perdere struttura l'una nell'altro, tanto da sviluppare alcune varianti (una delle quali chiude la processione). Le chitarre sono miracolose: cristalli imprendibili che roteano in un etereo gioco di riflessi. Ognuna crea uno schema che viene richiamato dall'altra leggermente modificato, e così via fino a che il tessuto si addensa a tal punto da perdere contatto con la matrice originaria (il tutto nello spazio di due soli accordi). Si aggiungano la chitarra slide che piange in lontananza, la linea solista in prossimità del ritornello, gli incastri di pianoforte, e si otterrà un gioco di sovrapposizioni con cui i Chapel Club raggiungono stralunati vertici di creatività e complessità. In attesa di vederli fare capolino per una settimana nella classifica inglese e poi scomparire, e benché certa stampa non voglia esporsi troppo (è proprio NME a nicchiare questa volta), dare una possibilità al quintetto londinese risulta un obbligo morale, almeno per gli appassionati di certe sonorità. (www.storiadellamusica.it)
(Rino De Cesare)
“RADI@zioni” è un programma curato da Camillo Fasulo, Marco Greco, Antonio Marra e Angelo De Luca, con la radi@ttiva collaborazione di Rino De Cesare, Angelo Olive e Carmine Tateo, in onda tutti i lunedì e venerdì tra le ore 22 e le 24 sull’emittente radiofonica Ciccio Riccio di Brindisi – www.ciccioriccio.it.

BLACK FRANCIS: Ritorno alle origini per l'ex Pixies con "The Golem"


BLACK FRANCIS “The Golem” (2010)

Ritorno alla grande per l’ex Pixies che, grazie alla sua carriera solista, sembra vivere una seconda giovinezza, mentre la tanto sospirata reunion di quella seminale band sembra ormai un miraggio irraggiungibile…
 “The Golem”, disponibile anche in una versione extra-large con ben 4 CD più DVD, è un album assai atipico per il nostro: presenta, infatti, brani veri e propri alternati ad alcuni strampalati jingles psycho-folk che sembra siano stati creati apposta come commenti sonori per ipotetiche pellicole cinematografiche. Ritorno alle origini quindi per Mr. Black riferendoci naturalmente alle sue prime uscite da “single”. Una sezione fiati interviene qua e là a sostegno di alcuni brani contribuendo ad elevare ancor di più il tono dell’intero disco. Nonostante la non più “verde età” Frank Black o Black Francis che dir si voglia, riesce sempre a sorprendere. (Carmine Tateo)

venerdì 11 febbraio 2011

ROVISTANDO IN ARCHIVIO abbiamo rispolverato "Sweet Fanny Adams", superlativo e creativo capolavoro per gli SWEET

SWEET “Sweet Fanny Adams” (RCA, 1974)
Gli Sweet hanno notevolmente influenzato il movimento heavy metal, in particolar modo la sottocorrente pop metal degli anni ’80. L’album “Sweet Fanny Adams”, pubblicato nel 1974, presenta un titolo alquanto duro, in quanto ricorda un efferato omicidio compiuto da tale Frederick Baker ai danni di una bambina di 8 anni di nome Fanny Adams. “Sweet Fanny Adams” è diventato anche un modo di dire nel linguaggio inglese comune avendo come significato "nothing at all" o ancora, più esplicitamente, "fuck all". Il disco, nonostante presenti due composizioni firmate dagli “hit makers” Chinn & Chapman, è sicuramente Sweet al 100 %, con capolavori metallici come la title track o "Set Me Free" o la più oscura "Into the night". L'album entrò nella top 40 Inglese, e n° 2 nella top in Germania dove gli Sweet sono tutt’oggi ancora molto amati. Nel disco troviamo 9 brani tutti molto belli, suonati con estrema passione, senza sbavature né punti morti. La cosa micidiale è che, a distanza di quasi 37 anni, questo lavoro risulti ancora fresco, genuino ed inossidabile, una pietra miliare del panorama rock. “Set Me Free”, il potentissimo brano di apertura dell'album, è stato scritto dal chitarrista Andy Scott. Il suono della sua Gibson penetra nelle vene, la batteria di Mick Tucker infligge colpi sincronizzati al massimo, il basso di Steve Priest è energico come non mai e la voce di Brian Connolly potente, dalle corde vocali invasate ma con timbro acuto, completa il tutto. “No You Don’t”, il terzo brano dell'album è prova inconfutabile della validità di questo album... semplicemente pazzesco!  “Sweet Fanny Adams”, o per meglio dire, “Sweet F.A.” il brano, è diviso in varie fasi con effetti travolgenti, un mix di suoni e di ritmiche serrate con lancinanti assolo di chitarra, rimbombanti colpi di basso, un’ampia coralità e poi gong, campane tubolari, colpi di pistola ad effetto… Raramente si trova nel panorama rock un brano del genere… semplicemente superlativo e creativo: un vero capolavoro!
Gli Sweet nacquero a Londra, Regno Unito, nel 1968. Furono tra i più influenti rappresentanti del glam rock e dell’hard rock negli anni ’70 e fonte di ispirazione per molti gruppi negli anni a venire. Le loro origini vanno fatte risalire a metà degli anni 60, quando in Inghilterra erano attivi i Wainwright's Gentlemen, un gruppo soul dove troviamo il futuro batterista degli Sweet, Mick Tucker. Fu proprio nei Wainwright's Gentlemen che avvenne il primo contatto tra Tucker e Brian Connolly, che degli Sweet diventerà il cantante, visto che quest'ultimo sostituì dietro il microfono un certo Ian Gillan, che poi diventerà famosissimo con i Deep Purple. I due rimasero nei Wainwright's Gentlemen fino al ’68 quando decisero di avviare un nuovo progetto musicale, chiamando il bassista Steve Priest. L'organico fu completato dal chitarrista Frank Torpey. Il nome scelto per questa nuova avventura musicale fu Sweetshop accorciato poi in Sweet con l’uscita di Torpey e l’ingresso di Andy Scott. Tantissimi i brani da ricordare, tra gli altri, nell’abbondante produzione Sweet dei seventies: “Action”, “Fox on the run”, “Ballroom blitz”, “Love is like oxygen”, “Teenage rampage”, “Blockbuster”, “Hell raiser”, “The six-teens, “Lost Angels”… quasi tutti ripresi come cover dal altri illustri nomi come Saxon, Krokus, Def Leppard, Raven, Red Hot Chili Peppers, Motorhead, Damned e Vince Neil (dei Motley Crue)… solo per ricordarne qualcuno.
Per tornare ai contenuti di questo album: “Into The Night”, tenebrosa, con rintocchi e assoli in primo piano, campane alla “zombi viventi” è un vero richiamo della foresta. Potrebbe fungere da colonna sonora per qualche film horror. “Restless” con il basso in primo piano ed il coro di voci dei quattro componenti è da libidine! “Heartbreak Today” è una genuina lussuria in puro stile glam rock. “Peppermint Twist”, unica cover presente, è un vero inno revival del travolgente ballo in voga negli anni ’60, mentre “Rebel Rouser”, molto orecchiabile, ti rilassa: è un pezzo da autoscontro (… le mitiche auto-piste da luna park!). “AC/DC”, per finire, divenne famosissima anche in Italia perché gettonatissima a “Supersonic”, il mitico programma di Radio 2 RAI della prima metà degli anni ’70. Questo disco non può assolutamente mancare nella discoteca di un amante del genere Rock.
(Teresio Garavaglia)

giovedì 10 febbraio 2011

THE DECEMBERISTS: vivaci ed intelligenti con il nuovissimo "The King Is Dead"

THE DECEMBERISTS “The King Is Dead” (Rough Trade, 2011)

Tracklist:
01. Don’t Carry It All
02. Calamity Song
03. Rise To Me
04. Rox In The Box
05. January Hymm
06. Down By The Water
07. All Arise!
08. June Hymm
09. This Is Why We Fight
10. Dear Avery

“The King Is Dead” sigla il ritorno della ciurma di “carbonari” di Portland, capitanati da Colin Meloy. Dopo l’interessante e convincente esplorazione nelle lande sonore del progressive/experimental rock, molto “english style”, con il precedente "The Hazards Of Love" (2009), i The Decemberists, si fanno nuovamente trasportare dagli impulsi atavici delle foreste pluviali del Nord-Ovest statunitense (www2.troublezine.it/reviews/15523/the-decemberists-the-king-is-dead). “The King Is Dead” lascerà probabilmente perplessa una grossa fetta dei fans della prima ora, come è fisiologico che accada nel percorso artistico di una band abbastanza influente. Non siamo al cospetto di un disco clamoroso, ma dopo le derive musicali del precedente capitolo c’è da restare più che ottimisti. Il Re è morto e nemmeno ce ne siamo accorti! (www.indieforbunnies.com/2011/01/10/the-decemberists-the-king-is-dead/). Il coraggio (o era avventatezza?) non sempre paga. E così, nel 2009, l’ambizioso “concept album” “The Hazards Of Love” ha incassato molte più critiche (anche feroci ed immeritate) che lodi. Colin Meloy, l’occhialuto nerd dalla vista lunga che regge da sempre il timone dei Decemberists, tra i migliori retro-progressisti d’America di questi ultimi anni, si era abituato alle coccole dei giornalisti e dev’esserci rimasto molto male. Fatto sta che ha prontamente ingranato la retromarcia, e allo yin di quell’album “prog-folk-metal” da lui stesso definito un “musical mancato”, risponde oggi con lo yang di “The King Is Dead”, titolo in un certo qual modo evocativo (nel 1986 gli Smiths pubblicavano “The Queen Is Dead”, ricordate?) per una collezione di canzoni semplici, lineari e cristalline come non mai. 10 canzoni (niente suite, nessuna fiaba allegorica o astruso sottotesto, stavolta!), poco più di 40 minuti di musica. Al primo impatto si arriva già al cuore del disco, perché “The King Is Dead” ha il pregio dell’immediatezza e della comunicativa: i cinque giovanotti dell’Oregon, barbe occhiali e aria rustica da contadini del rock, sono tornati scientemente alle loro radici college, a quel suono indie americano solidamente piantato nei primi anni ’80 di 10,000 Maniacs e R.E.M. E il fatto che in tre titoli ci sia la Rickenbacker di Peter Buck in persona rende il loro proposito ancora più autentico ed esplicito: pure troppo, se è vero che il jingle jangle chitarristico e la batteria di “Calamity song” (lo ha già osservato qualcun altro, ma non si può che sottoscrivere) fanno subito venire in mente una outtake o a una ghost track da “Murmur” o da “Reckoning” quasi 30 anni dopo. Buck si fa sentire, eccome, anche in “Down by the water”, e sono di nuovo sapori forti di R.E.M. con l’umore giusto per spopolare nelle college radio dentro e fuori il Web; l’ombra di Neil Young si allunga invece sulla suggestiva “Dear Avery” (strofa malinconica, inciso solare e arioso), mentre il sapore un po’ western di “This is why we fight”, l’episodio più rock, aggressivo ed elettrico della raccolta, piacerebbe sicuramente anche all’ultimo Billy Bragg. E che dire di “Rise to me”? Probabilmente la migliore della raccolta, con quel mix dolce e fragrante di pedal steel, sei corde acustica e armonica che firma inconfondibilmente il suono di questo album. Un disco fresco e piacevolissimo, sicuramente meno avventuroso e impegnativo dei precedenti. La messa a fuoco definitiva, la prova della maturità dopo cinque dischi di varia ed effervescente ispirazione? Mah, i Decemberists sono una band vivace e intelligente, curiosa e autoironica. Capace, come poche altre oggi, di sorprendere, di sovvertire i pronostici e di rimescolare le carte. Scommettiamo che la prossima volta cambieranno di nuovo direzione? (www.rockol.it/recensione-4486/Decemberists-THE-KING-IS-DEAD).
“RADI@zioni” è un programma curato da Camillo Fasulo, Marco Greco, Antonio Marra e Angelo De Luca, con la radi@ttiva collaborazione di Rino De Cesare, Fernando Falcolini, Angelo Olive e Carmine Tateo, in onda tutti i lunedì e venerdì tra le ore 22 e le 24 sull’emittente radiofonica Ciccio Riccio di Brindisi – www.ciccioriccio.it.

domenica 6 febbraio 2011

THE RECORD's - arriva da Brescia la band più "english" d'Italia!


THE RECORD’S “De Fauna Et Flora” (2010)

Potrebbe sembrare strano ma, come già ricordato presentandovi poco tempo fa il loro disco d’esordio, The Record’s provengono da Brescia e sono sicuramente la band più “english” che, attualmente, abbiamo in Italia. “De Fauna Et Flora”, 2° lavoro per il terzetto lombardo, è un autentico compendio di tutto ciò che di buono c’è tra Blur e The Shins, e presenta una scaletta che sale incalzante, senza mai mettere un piede in fallo.
Se ricordavate i The Record’s per un esordio all’insegna del più arrembante power-pop, beh, adesso qui gli orizzonti espressivi e stilistici si dilatano a dismisura volgendo verso uno psychedelic-pop di qualità. I The Record’s hanno messo in fila una serie di canzoni che fanno subito venir voglia di riascoltare questo disco da capo e poi ancora da capo per ascoltarlo e riascoltarlo. “De Fauna Et Flora” è disco di una freschezza assoluta.
(Carmine Tateo)

WOW... è il nuovo album (doppio) dei VERDENA


VERDENA “Wow” (Black Out - Universal, 2011) - www.verdena.com
“Dove andranno i Verdena, dopo “Requiem”? C'è una via di mezzo tra “i nuovi Nirvana” e la disperazione musicale di questi brani, ma non è detto che i Verdena la stiano cercando.” Così terminava, nell'aprile del 2007, la recensione di “Requiem” su Rockol.it. Con il senno di poi, si può assolutamente affermare che i Verdena il compromesso non l'hanno cercato e sono andati dritti per la loro strada, anzi la strada l'hanno lasciata. Si sono rintanati in Valle Lujo, nei pressi della loro Albino, non facendo trapelare per tre anni alcuna notizia, isolandosi nella propria vita, fatta di fantasia, suoni, ma anche di gioie e problemi comuni ai mortali come la nascita di un figlio per il frontman Alberto, la rottura di un hard disk con dentro molto materiale già registrato. Niente compromessi si diceva. Già, quando nel 2011 decidi di dare alle stampe un disco come “Wow”, la tua posizione è inequivocabilmente quella di chi rifiuta ogni strategia discografica e ama fare dischi come si faceva una volta. La direzione è chiara fin dalla scelta del primo singolo: optare per il folk sbilenco ed il testo pazzoide di “Razzi arpia inferno e fiamme” e non sul “singolo perfetto” per melodia pop, durata e testo della ballad “Canzone ostinata” è una palese affermazione di indipendenza.
“Wow” è un disco inizialmente indecifrabile, una miscela di melodia e rumore, una strizzata d'occhio a testi ed atmosfere per cui non è blasfemia citare Mogol/Battisti e puro non sense, pianoforte più che chitarra, psichedelia incontrollata e binari pop-rock. Dopo qualche ascolto i Ferrari Brothers e Roberta Sammarelli sciolgono ogni resistenza che si possa avere nei loro confronti, sogghignano e ti spingono nel loro paese delle meraviglie. (www.rockol.it)
Il gruppo è riuscito a mettere cuore ed anima in un lavoro che coinvolge principalmente la testa. Scrivere musica pop così rigidamente elaborata riuscendo a coniugarla a passione e sudore non è un’operazione che si può permettere chiunque: in particolare quello che riesce particolarmente bene alla band è la capacità di elaborare e rendere propri (e italiani) alcuni atteggiamenti della musica pop internazionale d’avanguardia. Così, quando “Loniterp” o “Per Sbaglio” azzardano armonie vocali di grande effetto, è facile farsi venire alla mente bands come Grizzly Bear e Animal Collective ma tutto dura solo qualche istante perché i Verdena sono dietro l’angolo a rimettere tutto sotto il proprio marchio, in modo superbamente autografo. (www.fardrock.wordpress.com)
I Verdena sono una band “importante”, molto rispettata, ma che non fa sistema, non è inserita in nessuna scena, non ci sono ospiti illustri nell’album ma solo loro amici, come si deduce dai ringraziamenti finali nel libretto dove non compare nemmeno un nome di band nostrane, cosa a cui non eravamo più abituati. “WOW” è stato completamente scritto e (quasi del tutto) suonato da Alberto, Luca e Roberta, affiancati da collaboratori esterni solo per quanto riguarda gli strumenti più “classici”; per il resto i tre si cimentano con tastiere, sintetizzatori, macchine varie e pure una bella fisarmonica. Impossibile analizzare i brani singolarmente ma “WOW” è un viaggio bellissimo, che una volta concluso si vorrebbe ricominciare subito, come da bambini sull’ottovolante. Eppure qui si rimane sempre molto in alto in quanto a sensazioni d’ascolto ed ispirazione della band e l’unico commento che viene a chiusura del tutto è, appunto, Wow! (www.indieforbunnies.com)
(Rino De Cesare)
“RADI@zioni” è un programma curato da Camillo Fasulo, Marco Greco, Antonio Marra e Angelo De Luca, con la radi@ttiva collaborazione di Rino De Cesare, Angelo Olive e Carmine Tateo, in onda tutti i lunedì e venerdì tra le ore 22 e le 24 sull’emittente radiofonica Ciccio Riccio di Brindisi – www.ciccioriccio.it.



DISCLAIMER

1) Questo blog, a carattere puramente amatoriale, non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità, in base alla disponibilità del materiale inviatomi e/o auto-fornito.

2) Questo blog non ha richiesto contributi pubblici e non ha fini di lucro. Pertanto, non può essere considerato, in alcun modo, un prodotto editoriale
ai sensi della legge 07.03.2001, n. 62.
Ad oggi questo blog non presenta alcuna sponsorizzazione o affiliazione pubblicitaria, dunque al momento è da ritenersi un’opera totalmente no profit.

3)Copyright:
Alcune delle immagini contenute in questo blog sono prese in buona fede dal web. Se tuttavia dovessero sorgere dei problemi di carattere "autorizzativo" è sufficiente comunicarlo e tali immagini saranno rimosse.
E’ permesso citare parti tratte dal blog esclusivamente a condizione che si riporti un link con scritto:
Tratto da: www.camillofasulo.blogspot.com (con link attivo, cioè cliccabile alla pagina/foto).
Se contenuti o immagini violano diritti di terze parti saranno immediatamente rimossi dopo segnalazione.
Tutti i contenuti sono originali, salvo i casi in cui è espressamente indicata altra fonte.

4) Responsabilità:

Data la natura esclusivamente amatoriale del sito, non vi è alcuna forma di garanzia sull’esattezza e la completezza delle informazioni riportate, tuttavia si cercherà sempre di verificare i fatti riportati e si resta a completa disposizione per correzioni e rettifiche.

Potrà essere richiesta la rimozione totale o parziale del materiale ritenuto inappropriato e/o una eventuale rettifica inviando una e-mail a cfasulo@libero.it oppure a radiazioni@ciccioriccio.it.

Tutto il materiale presente nel blog (testi e immagini) è pubblicato a solo scopo divulgativo, senza fini di lucro (lo conferma la mancanza di link-pubblicità commerciale).

5) Queste condizioni sono soggette a modifica, senza alcuna forma ben definita di preavviso, vi invitiamo dunque a verificarne i contenuti con una certa frequenza.