giovedì 24 giugno 2010

THE DEAD WEATHER... cupi che più cupi non si puo!

THE DEAD WEATHER “Sea Of Cowards” (Third Man, 2010)
www.thedeadweather.com,
www.myspace.com/thedeadweather
,
www.thirdmanrecords.com

Tracklist:
blue blood blues
hustle and cuss
thedifference between us
i’m mad
die by the drop
i can’t hear you
gasoline
no horse
looking at the invisibile man
jawbreaker
old mary

Cupo che più cupo non si può, arriva il 2° album del super gruppo capitanato da Jack White, The Dead Weather. “Sea Of Cowards” è un connubio di chitarre graffianti, sintetizzatori a pioggia e distorsioni gotiche da brivido. Il tutto in armonia con la sensualissima voce di Allison Mosshart, leader dei The Kills, che si fonde con il cantato di White, creando un mix davvero esplosivo. (spettacoli.tiscali.it)

A questo giro però l'umore è ancora più nero: 35 minuti concentrati solo su riff e urla contro il “mare di codardi” (cioè noi “internettari”, a detta dello stesso White). Jack è molto più presente nel cantato: in duetto o doppiando la voce della brava Allison. L’effetto è sempre minaccioso, tagliente, pazzo. I due si travestono da diabolici reverendi in un western sporco di nero e cantano di relazioni difficili, tese, destinate a finire male. Scorre il sangue, snocciolano litanie infernali, trasmettono tensione ma non deprimono (non ancora, per fortuna!). Allison dimostra il carattere di quella che ha sempre l’umore da “quei giorni” ma non si abbassa a lanciarti i piatti addosso, no, ti tiene sul filo, ti fa capire che sa che hai fatto una cazzata e che la pagherai. La pagherai cara! Musicalmente compattissimo, l’album scorre che è un piacere coi suoi pezzi brevi e concisi… cosa si può chiedere di più? Un’altra piccola gemma per gli amanti del rock sporco di sangue. (Marco Brambilla, www.outune.net)

«Prepara qualcosa e poi taglia, taglia, taglia… Ne vengono fuori cose straordinarie!». Nick Cave raccontava così, non molto tempo fa, il modo che ha scelto di fare da grande. Jack White sembra della stessa scuola. Con The Dead Weather, la sua nuova passione, il suo oltre-i-White Stripes, ha tagliato i tempi di produzione (due album nel giro di un anno, oltre a un trafficato tour mondiale) ed ha tagliato soprattutto i panni della musica, che sono diventati adesso stracci surriscaldati portati su corpi nudi e con ossa spigolose. L'album dura 35 minuti, come un vecchio manufatto in vinile, contiene 11 brani esplosivi, di breve durata e che girano attorno a un'idea di urgenza, di affanno, con gli strumenti che ti stanno addosso, una voce (quasi sempre quella di Allison Mosshart) che sbatte e fa scintille contro le chitarre incalzate dalla frusta sempre alzata sulla batteria. Il rock degli anni zero, o quel che ne è rimasto almeno, non può che essere così: duro, incisivo, soffocante, con una promessa di eccitazione e di divertimento che a tratti diventa pura minaccia. (Riccardo Bertoncelli, delrock.it)

La parola “riposo” non esiste nel vocabolario di mr. White. L’intero secondo album dei promettenti The Dead Weather si basa sull’opposto del termine in questione, vale a dire la “coscienza” intesa nel senso di: “svegliatevi, siamo tornati”. Sì, perché Jack e soci sono tornati, forse inattesi, forse di sorpresa, ma comunque sia adesso sono qui. Chi voleva The Dead Weather morti e sepolti dovrà invece ricredersi. “Sea Of Cowards” è il disco della conferma, quello che tutti aspettavamo. L’alchimia sonora sperimentata nel debut album si riconferma qui con una rinnovata magia. I ritmi sono ossessivi, a volte claustrofobici; le geometrie compositive grezze e sfocate, come esige la più oscura tradizione del blues urbano. (Tommaso Fantoni, impattosonoro.it)

Nel “mare di vigliacchi”, di certo, non troviamo The Dead Weather: “Sea Of Cowards” è un tripudio di sperimentalismo che non passa inosservato. E Jack White sa bene cosa vuol dire non passare inosservati! (Rossella Romano, rockol.it)

a cura di: Camillo “RADI@zioni” Fasulo

“RADI@zioni” è un programma curato da Camillo Fasulo, Marco Greco, Antonio Marra e Angelo De Luca, con la radi@ttiva collaborazione di Rino De Cesare, Fernando Falcolini, Angelo Olive e Carmine Tateo, in onda tutti i lunedì e venerdì tra le ore 22 e le 24 sull’emittente radiofonica Ciccio Riccio di Brindisiwww.ciccioriccio.it.

“Brothers” per The Black Keys… un disco per l’estate!

THE BLACK KEYS – “Brothers” (Nonesuch Records, 2010)

Dopo le varie parentesi come solisti, a parte le varie ospitate in altri progetti, per i signori Dan Auerbach e Patrick Carney è arrivata l’ora di tornare ad incidere come The Black Keys. “Brothers” è il loro 4° lavoro sotto questa ragione sociale.
Il disco risulta di gran lunga il migliore della loro produzione: praticamente un distillato di rock e blues che stordisce.
Un susseguirsi di episodi diversi dove è evidente un inevitabile richiamo al passato.
Led Zeppelin, Jimi Hendrix e Kyuss sembrano essere i riferimenti primari… ma, attenzione, non ci troviamo davanti ad un’operazione revival, tutt’altro!
Ottima la produzione!…
Ottimo il mixaggio!…
Ottimo disco per affrontare questa lunga e torrida estate 2010!

(Carmine Tateo)

mercoledì 16 giugno 2010

KARMA TO BURN, il ritorno dei più credibili eredi dei Kyuss

KARMA TO BURN “Appalachian Incantation” (ltd. ed. 2CD set - Napalm Records, 2010)
www.k2burn.com

Tracklist:

“Appalachian Incantation”
Fourty-Four
Fourty-Two
Fourty-One
Fourty-Six
Waiting on the Western World (feat. Daniel Davies / Year Long Disaster)
Fourty-Three
Fourty-Five
Twenty-Four

“Cat Got Our Tongue” Bonus CD
Two Times (feat. John Garcia)
Fourteen
Ten
Thirteen
Six
Twenty
Thirty

I Karma To Burn non sono un gruppo come tanti, questo è certo! Si tratta di un trio, molto sui generis, che suona dello stoner rock interamente strumentale. Inoltre, proprio per questa caratteristica, la maggior parte delle canzoni non ha un titolo ma sono semplicemente numerate. La loro storia iniziò già a metà degli anni ’90, quando il bassista Rich Mullins ed il chitarrista Will Mecum fondarono la band. Tuttavia, sotto le pressioni della loro etichetta di allora, la Roadrunner, pubblicarono un album di debutto tecnicamente tradizionale, con tanto di liriche e di cantato. Un discorso, questo, che non si confaceva però all’indole della band, cosicché Mullins e Mecum preferirono reclutare in seguito Rob Oswald alla batteria e proseguire come trio strumentale. Pubblicarono così altri due album, “Wild Wonderful Purgatory” e “Almost Heathen”, per poi separarsi nel 2002. Dopo un lungo silenzio durato sette anni si sono riformati l’anno scorso e “Appalachian Incantation” è appunto il primo album dopo la reunion. Il disco è prodotto da Scott Reeder, bassista dei leggendari Kyuss, il quale ha svolto certamente un ottimo lavoro (www.stereoinvaders.com).

I pochi che già li conoscono ed apprezzano non troveranno grosse novità su “Appalachian Incantation”. KTB propongono, dopo tutto, una musica calda, intensa, analogica, valvolare, ricca di groove, uno stoner rock nerboruto e dalle leggere inflessioni metal, mai statico e ripetitivo bensì ricco di cambi di tempo e scossoni ritmici, che dimostra di aver assimilato appieno la lezione dei mostri sacri del genere, dai Kyuss ai Monster Magnet, dai Blue Cheer (nel loro caso contano più dei Black Sabbath) per finire con i Nebula, band in cui ha militato lo stesso drummer Rob Oswald. Nulla di nuovo, ovviamente, né c’è qualcosa che si segnala per particolare eccellenza creativa… Solamente un buon disco, in perfetta linea con i predecessori, in grado di rallegrare una festa dall’alto tasso alcolico. In ogni caso una deroga alla formula numerico/strumentale c’è: si tratta della quinta traccia, “Waiting On The Western World”, l’unica ad avere un titolo convenzionale e a poter godere di un intervento vocale, quello di Daniel Davies, singer degli amici Year Long Disaster, il quale offre una buona prova canora in un brano dal sapore fortissimamente kyussiano (www.outtune.net).

Alla fine del viaggio c'è una bella sorpresa che, purtroppo, solo i possessori dell'edizione limitata potranno gustarsi. Tra le tante bonus tracks, infatti, spicca “Two Times”, canzone che vede presenziare al microfono niente meno che John Garcia: il brano sembra uscito direttamente da una fumeria d'oppio di Marrakech con i suoi riff lenti, folli e arabeggianti, con l’ex voce voce di Kyuss, Hermano e Unida a dare quel tocco di classe in più. I difetti di questo “Appalachian Incantantion” son ben pochi e puramente soggettivi: qualche canzone non completamente a fuoco e, soprattutto, la forte presenza delle sole chitare per molti minuti potrebbe destabilizzare l'attenzione di un ascoltatore non troppo attento. Ma, in definitiva, una nuova ed importante pagina nella storia dei Karma To Burn è stata comunque scritta. “Appalachian Incantantion” difficilmente vi deluderà (www.metallized.it). (Rino De Cesare)

a cura di: Camillo “RADI@zioni” Fasulo

“RADI@zioni” è un programma curato da Camillo Fasulo, Marco Greco, Antonio Marra e Angelo De Luca, con la radi@ttiva collaborazione di Rino De Cesare, Fernando Falcolini, Angelo Olive e Carmine Tateo, in onda tutti i lunedì e venerdì tra le ore 22 e le 24 sull’emittente radiofonica Ciccio Riccio di Brindisiwww.ciccioriccio.it.

sabato 12 giugno 2010

ALWAYS LATER - South Italy posthardcore


ALWAYS LATER “This Nation Has No Lights” (autoproduzione, 2009)
Always Later è una creatura allergica alle facili etichette. Già con la precedente uscita dimostrativa il combo pugliese aveva reso palese la non-appartenenza agli stereotipi di un genere musicale ben definito. Resta chiara la discendenza della proposta ma AL, pur confessando dipendenze che vanno dall’hard-core all’emo-core (citando a ruota libera Breach, Cap'n'Jazz, Dead Guy, Promises, Ring, Texas Is The Reason, ma anche At The Drive-In, Fugazi, Neurosis, Refused) riescono a plasmare un sound “crossoverizzando” (passatemi il termine!) e centrifugando tutte le possibili influenze. Ora, fondendo elementi che potrebbero definirsi anche contraddittori tra loro, con “This Nation Has No Lights” evolvono ulteriormente in favore di una moderna via all’hard-core (post-hc?). Anche se non totalmente originalissimi gli AL sono carichi di una tale passionale energia da lasciare al palo parecchi dei più quotati nomi di settore e non solo. Il materiale contenuto su questa nuova release potrà piacere sia a chi non è troppo vincolato a generi e sottogeneri, sia a chi, pur non apprezzando particolarmente sonorità dure ed aggressive, non si ferma davanti all’inconsueto o all’eccentrico… E dire che c’è ancora chi si lamenta per la mancanza di una significativa evoluzione dell’hard-core!
(Camillo “RADI@zioni” Fasulo)

JON OLIVA'S PAIN - Il Mountain King colpisce ancora!

JON OLIVA’S PAIN “Festival” (AFM Records, 2010)
www.jonoliva.net/

Tracklist:
1. Lies
2. Death Rides A Black Horse
3. Festival
4. Afterglow
5. Living On The Edge
6. Looking For Nothing
7. The Evil Within
8. Winter Heaven
9. I Fear You
10.
Now

Lo avevamo sempre sospettato, ma ora è chiaro: i Jon Oliva's Pain sono un viaggio nella follia del loro leader, una corsa schizofrenica nel labirinto cerebrale dove tempeste di idee generano quello che da più di 20 anni ascoltiamo scaturire, rimanendo talvolta a bocca aperta, dalla mente e dalla penna di questo signore. (truemetal.it)
Cupo e sferzante, “Festival” unisce l’attitudine teatrale e l’heavy più sostenuto nel segno dell’inesauribile mente del suo leader. Tutto questo mentre lo stesso cambia idea almeno una volta a settimana sulla possibile rifondazione dei Savatage. Ma, viene da chiedersi, ce n’è davvero bisogno? Quella band è un’autentica pietra miliare dell’heavy, e Jon Oliva, anno dopo anno, oltre ad aumentare di peso, produce dischi di spessore unico alternandosi tra i Pain e la Trans-Siberian Orchestra. In una carriera di altissimo livello qualitativo, “Festival” non è un’eccezione, anzi, potrebbe benissimo costituirne un picco. (metallized.it)
In avvio di “Festival”, la canzone, troviamo una citazione assolutamente non velata per pagare un doveroso tributo a una delle band preferite di Jon Oliva: i Queen. La musichetta è esattamente la stessa che funge da intro a “Brighton Rock”, opener di un capolavoro assoluto della storia della musica come “Sheer Heart Attack”, il preferito in assoluto per chi scrive. Ma altri richiami ai Queen, ed in particolare al personalissimo guitar style di Brian May, li potrete trovate un po’ dappertutto su questo disco. (truemetal.it)
Questo “Festival” può considerarsi il lavoro più completo e maturo dei Jon Oliva's Pain sino ad ora, dove tutto funziona a meraviglia. Grandi composizioni con molti richiami, anche a livello di sonorità, al progressive degli anni ’70, con sfuriate heavy e riffs pesantissimi intervallati ora a dolci parti acustiche, ora a intermezzi blueseggianti, ora a partiture più classicheggianti. Jon oltre che gran compositore si rivela anche grande arrangiatore in un lavoro dove sono presenti massicce dosi di tastiere, sempre da lui perfettamente suonate, ed un’autentica sezione d’archi. Che dire poi della sua prova vocale? Immensa, sia per l’interpretazione, che per l’emozione che suscita. Menzione particolare anche per il fido chitarrista Matt LaPorte, autore di assoli semplicemente entusiasmanti, senza nulla togliere al resto della band, supporto davvero indispensabile per far girare i Pain alla perfezione. Insomma un gran bell’album, imprescindibile per chi ama i Savatage ma anche consigliatissimo per tutti gli altri. (informazionemetal.blogspot.com)
Se amate davvero l’heavy metal, ma soprattutto se amate la musica di classe, questo è un disco da avere a tutti i costi. Forse esagero, ma di album così, col passare degli anni, se ne sentono sempre meno. Per questo, quando ne trovo uno, non posso fare a meno di ascoltarlo e riascoltarlo fino allo sfinimento. Forse questo “Festival” non entrerà nella storia, ma rappresenta l’ennesimo capitolo di una lunga vicenda d’amore tra Jon Oliva e il suo pubblico, ultimo tassello, in ordine temporale, della vera e propria enciclopedia del metal rappresentata dalla discografia del Mountain King. (metal.it)
Cosa resta da dire di “Festival”? La gara per il disco dell’anno è già cominciata, e Jon Oliva promette battaglia: i Pain sono tra le entità sonore più definite e credibili dell’attuale panorama rock, e non sbagliano un colpo. (metallized.it)

a cura di: Camillo “RADI@zioni” Fasulo

“RADI@zioni” è un programma curato da Camillo Fasulo, Marco Greco, Antonio Marra e Angelo De Luca, con la radi@ttiva collaborazione di Rino De Cesare, Fernando Falcolini, Angelo Olive e Carmine Tateo, in onda tutti i lunedì e venerdì tra le ore 22 e le 24 sull’emittente radiofonica Ciccio Riccio di Brindisi www.ciccioriccio.it.

STEREO TOTAL = electropop!

STEREO TOTAL – “Baby Ouh!” (Disko B, 2010)

Gruppo di nicchia quello degli Stereo Total. Formato da un duo uomo-donna, che è in giro da ben 15 anni, ci deliziano con la loro collaudatissima formula a base di electro-pop. “Baby Ouh!” è un disco decisamente ben riuscito.
Accordi semplici, ritornelli orecchiabili e qualche cover per ricordare gli anni ormai passati, i francesini finiscono per dissacrare, come al solito, band più nobili di loro. È difficile staccare le orecchie dai loro ritmi così facili e moderni… una volta premuto “play” il cd va a ripetizione!

(Carmine Tateo)

martedì 8 giugno 2010

“SINGLES, l’amore è un gioco" (USA, 1992)

REGIA DI: CAMERON CROWE

CON: MATT DILLON, BRIDGET FONDA, CAMPBELL SCOTT, KYRA SEDGWICK

“Prima di raccontare il rock degli anni ’70 dalla prospettiva, in parte autobiografica, di un giovane giornalista adolescente nel film “Quasi famosi”, il regista Cameron Crowe (che il rock lo vive anche nella tranquillità domestica, considerato che è anche il marito di Nancy Wilson delle Heart), ha fotografato in tempo reale la scena grunge. Questa spassosa commedia, che racconta i problemi di cuore e le difficoltà di diventare adulti di due coppie, che ne incrociano tante altre, è infatti ambientata a Seattle, proprio in tempo reale, in “quegli” anni, quando questa musica stava conquistando il mondo. Non c’è una vera trama da raccontare, ma il film è bello e godibile, e rivisto oggi, ci racconta anche un’era dallo style lontano ormai anni luce, infarcito di ragazzi e ragazze in anfibi, camicie a quadri da taglialegna, pantaloni corti da lavoro e maglionacci larghi… che speriamo non tornino più di moda! Sul fondo appare una Seattle piovosa, proprio come ce la raccontavano all’epoca le riviste rock, e piena di club, dove vediamo esibirsi Alice In Chains, Soundgarden e i Citizen Dick, ovvero la band del protagonista, che altri non sono che i Pearl Jam con Eddie Vedder alla chitarra e Matt Dillon alla voce. Tante le citazioni al grunge, tra poster e magliette notiamo i nomi dei Mudhoney, Green River e Mother Love Bone, per non dire di una splendida t-shirt della Sub Pop. Tra i cameo segnaliamo Chris Cornell, coinquilino di Dillon, il regista stesso e il suo collega Tim Burton. La colonna sonora, su Epic, è particolarmente appetitosa. Tra le chicche Chris Cornell solista in “Seasons”, che sarebbe poi evoluta in “Spoonman” dei Soundgarden, le Heart nelle alter ego delle Lovemongers che rifanno “Battle of evermore” dei Led Zeppelin, e poi tutti i nomi sopra citati. Inevitabile, visto che siamo a Seattle, includere anche Jimi Hendrix. Si, mancano solo i Nirvana…” c’è invece posto per Paul Westerberg (ex Replacements”) che forse con il grunge non c’entra molto, visto che mi pare fosse originario di Minneapolis / Minnesota (la stessa città dei coetanei Husker Du), ma va bene lo stesso… è sempre roba di buona qualità!
(Gianni Della Cioppa, dal bimestrale “Classix!” # 27, Maggio/Giugno 2010)

a cura di: Camillo “RADI@zioni” Fasulo

domenica 6 giugno 2010

ANATHEMA - "We're here..." capolavoro mancato!

Anathema “We’re Here Because We’re Here” (K-Scope, 2010)
www.anathema.ws

Tracklist:
Thin Air
Summernight Horizon
Dreaming Light
Everything
Angels Walk Among Us
Presence
A Simple Mistake
Get Off Get Out
Universal
Hindsight

Sette anni sono passati dall’ultima release targata Anathema. “A Natural Disaster” è stato l’ultimo lascito dei ragazzi di Liverpool, poi un lungo silenzio rotto solo due anni fa con “Hindsight”, album raccolta di alcune canzoni dei Nostri riproposte in chiave acustica. Logico quindi che i fans fossero in trepidante attesa per questo “We’re Here Because We’re Here”, disco a lungo annunciato (anche con titoli diversi) e sempre posticipato (al punto che molti erano arrivati a credere si trattasse di un nuovo caso alla “Chinese Democracy”). Iniziamo da un dato molto significativo per capire l’album: gli Anathema hanno sì prodotto il disco, ma al mastering c’è Steven Wilson, mastermind dei Porcupine Tree. Se sapete, anche solo un po’, come opera il signore di cui sopra all’interno del suo gruppo principale, se conoscete le sonorità che adotta e il trend che, inevitabilmente, acquisisce ogni opera sulle quali mette le mani, sappiamo già cosa attenderci: ottimi arrangiamenti, cura maniacale per il suono e, in generale, un lavoro sempre eccellente. Parlando invece degli Anathema, chi li segue sa benissimo quale sia stata la loro parabola evolutiva (o involutiva, secondo altre scuole di pensiero): un percorso che ha portato una doom metal band (in grado di rivaleggiare con My Dying Bride e Paradise Lost) verso lidi via via sempre più lisergici, space rock, “pinkfloydeggianti” e, in una parola che vuol dire tutto e nulla, alternative. A dirla tutta l’ombra della band di Cambridge è sempre stata punto fermo per il gruppo dei Cavanagh, ma è con gli ultimi lavori che la virata è stata più netta e decisa. Non solo, in questo ottavo disco si possono rintracciare anche molti elementi appartenenti al post rock e, soprattutto, a livello di tematiche, una generale sensazione di positività e di speranza, che ha l’effetto di una pacca sulla spalla e di un incoraggiamento dati nel momento del bisogno. (www.spaziorock.it) Chi ha già ascoltato i singoli usciti tra il 2006 e il 2007 non si stupirà di ritrovarsi al cospetto di canzoni dalla spiccata mielosità. Ma per fortuna i fratelli Cavanagh, nonostante l'avanzare dell'età e di un'evidente, seppur non scandalosa, regressione creativa, ricordano ancora come si fa ad emozionare veramente e quando ci mettono tutti loro stessi in quel che fanno, non possono uscirne che capolavori. Ma dopo un ascolto del genere, riflettendo soprattutto sul passato, sulla storia e sui capolavori di questo gruppo, tirare fuori un verdetto obiettivo e scientifico è impresa a dir poco ardua, in special modo se si è legati agli Anathema a livello puramente affettivo. Privo di una vera tensione emotiva, lontano anni luce dal crepuscolarismo del recente passato, molto più melenso, effimero, onirico e semplice dei precedenti album, “We're Here Because We're Here” è un lavoro che, per bellezza e qualità, non può essere minimamente avvicinato alle perle dei fratelli Cavanagh del periodo rock ma rimane un disco che, se vi si presta la giusta attenzione, lasciando da parte qualsiasi superficialità critica, riuscirà comunque a regalare grandi emozioni. Rimane il fatto che se questo disco l'avesse composto qualche altro gruppo alt.rock europeo, si starebbe già gridando al capolavoro! (www.rockline.it) (Rino De Cesare)

a cura di: Camillo “RADI@zioni” Fasulo

“RADI@zioni” è un programma curato da Camillo Fasulo, Marco Greco, Antonio Marra e Angelo De Luca, con la radio-attiva collaborazione di Rino De Cesare, Fernando Falcolini, Angelo Olive e Carmine Tateo, in onda tutti i lunedì e venerdì tra le ore 22 e le 24 sull’emittente radiofonica CiccioRiccio.it di Brindisi.

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